La peste del 1656 in Basilicata

Abbiamo raccontato, molto brevemente, i fatti terribili che accaddero a Napoli in quei terribili otto mesi (fra fine gennaio e l’inizio di ottobre) dell’infausto 1656.

Ma come si propagò il morbo nel resto del Regno di Napoli e (quel che più ci interessa) cosa accadde nelle nostre contrade?

La peste di metà Seicento – ci ricordaI. Fusco – soggiornò a lungo nel Mezzogiorno. Nel periodo di permanenza all’interno del Regno, il morbo si diffuse in numerose località, arrecando perdite demografiche ingenti alle popolazioni colpite. Oltre alla capitale, la peste attaccò quasi la metà dei centri meridionali, con picchi di circa il 90% dei centri nei due Principati, di poco più del 60% in Terra di Lavoro, di quasi il 50% in Contado di Molise e in Capitanata, del 34-35% in Basilicata e inAbruzzo Citra, del 30% nell’altro Abruzzo, di circa il 27% in Terra di Bari e del 16% in Calabria Citra.[1] Ne rimasero indenni solo Terra d’Otranto e (a parte tre paesi) la Calabria Ultra.

Si è detto precedentemente dell’imperdonabile, disastroso ritardo con cui fu riconosciuto il morbo della peste nella città di Napoli. Altrettanto tardivo fu il tentativo di limitare la diffusione del contagio nelle altre provincie del Regno. Chi aveva capito cosa stava accadendo ed aveva potuto trovare una via di fuga fuori dalla città, verso la terra di origine o verso parenti in provincia, aveva avuto tutto il tempo di trasferirsi, fuggendo dalla peste o portandosela addosso. Emblematica ci sembra, in questo senso,la storia del medico di Sala Geronimo Gatta, che, presente a Napoli nel gennaio e febbraio 1656, ebbe modo di testimoniare i primi contagi di peste e riparare in tempo nella sua città di origine, per raccontare tutto poi nel suo famoso “Di una gravissima peste…” , edito a Napoli nel 1659.

Vi riportiamo il testo di una Prammatica della Deputazione di Sanità, così come recuperata dal Dr. De Renzi.

Prammatica Prima. Essendo venuto a nostra notizia, checoll'occasione delle infermità, che corrono in questa fedelissima città di Napoli, molte persone abitanti in essa se ne vanno per diverse parti del regno, e ben può essere che alcuni di essi tengano sopra la stessa infermità, il che causerebbe grandissimo danno alle altre città e terre di questo Regno. E volendosi da Noi rimediare al tutto, e tenere particolar pensiero della general salute, tanto di detta città, come di tutto il presente Regno, ci èparuto fare il presente Bando col quale: Ordiniamo e comandiamo a tutte le città e terre del presente Regno che facciano le solite guardie, e tutte le diligenze necessarie, e non ammettano in esse persona alcuna di una terra all' altra, se non porteranno i soliti bollettini di salute di questa città o terra, da dove saranno partite, acciocché non si perda il traffico fra di loro. Ed a rispetto delle persone e gente che andranno, od usciranno da questa città di Napoli, perché non si possono loro dare bollettini di sanità; Ordiniamo e Comandiamo, che capitando in dette città e terre, debbano farlo riconoscere dal Medico, e ritrovandolo infermo di detta infermità sospetta di contagio, non lo debbano ricevere. Ed acciocchésia noto a tutti, vogliamo ed ordiniamo che il presente bando si pubblichi tanto ne' luoghi soliti e consueti di questa città di Napoli, come in tutto il presente Regno.

DatumNeapoli die 23Maii 1656. ElConde de Castrillo – Vidit Garcia regens – ViditSoto reg. – Vidit Burgos reg. – Vidit Martinez reg. – ViditCacacius reg. – Vidit de Aquino reg. – DonatusCoppula Secret.[2]

La Basilicata – riporta GiustinoFortunato – perse un quarto della propria popolazione, passando da200.000 abitanti a 150.000.[3]

Dall’ottimo studio di I. Fusco sono ricavabili i dati sull’evoluzione demografica in Basilicata fra inizio XVI secolo e metà XVIII secolo, in linea con le altre provincie del Regno.[4]

                                       

Basilicata

(1505)

(1532)

(1545)

(1561)

(1595)

(1648)

(1660)

(1669)

(1732)

Fuochi

22.295

23.065

32.318

38.770

45.881

39.266

32.881

27.795

37.421

 

Questa tabella ci rende conto, intanto, di una crisi demografica che attraversò tutta la prima metà del seicento (per ragioni varie, che analizzeremo in altre occasioni, ma che si riproducono allo stesso modo nell’andamento demografico della comunità sassese) e ci consegnano una diminuzione in Basilicata, fra il 1648 ed il 1660, di 6.385fuochi, pari al 16,2%.

In verità non tutti i centri vennero colpiti con la stessa intensità – ci testimonia M. Strazza[5], citando il monumentale lavoro del compianto G. A. Colangelo[6]–poiché il morbo ebbe un vero eproprio andamento altalenante,anzi alcuni ebbero addirittura unincremento come Sasso di Castalda(raddoppio dei fuochi), Moliterno(aumento di 93 fuochi), e Saponara (aumento di 101 fuochi), anche seè ipotizzabile che alcuni nuclei familiarisi trasferirono nei paesi stimati più sicuri. Diversamente accadde nel Vulture-Melfese dove le comunità più popoloseregistrarono preoccupantiflessioni. Così Venosa passò dai5.285 abitanti del 1648 ai soli 2.400del 1669. La stessa Melfi che nel 1648aveva una popolazione di 10.900unità scese, nel 1669, a quota 6.155.

Nel Potentinonon tutti i centri subironodanni. Avigliano ad esempiorestò indenne. Duramente colpitodal flagello fu, invece, Viggiano, che passò da 2.890 abitanti a 1.906. Duramente colpito tutto il Lagonegrese dove la popolazione calò notevolmente. Così Lauria passò da 4.750 abitanti a 1.840, Rivello da 3.325 a 1.585, Tramutola da 3.015 a 1.500, Corleto Perticara da 1.855 a 855, Maratea Inferiore da 2.730 a 1.040. Alcuni piccoli paesi raggiunsero il minimo storico: Latronico da 1.400 abitanti a soli 285, Roccanova ebbe la già esigua popolazione dimezzata (da 600 a 300), Trecchina passò da 1.230 unità a 465, Rotonda da 1.000 a 575.

         Particolarmente ricca di notizie – continua Strazza, recuperando ancora Colangelo – èla relazione ad limina del vescovo di Marsico AngeloPinerio, datata 1659, rappresentandoun vero e proprio inventariodi quanto restava dopo la pesteed in parte di quanto era stato distrutto.La popolazione della diocesiaveva una popolazione di9.243 abitanti, cioè 2.757 in menorispetto al 1614. Marsicoaveva subito una fortissimadiminuzione, passando da6.000 abitanti nel 1618 a soli 1.119nel 1659. Anche Viggiano e Marsicovetereavevano visto i propri fuochiridursi della metà.La Chiesa stessa aveva subito notevoliconseguenze dalla decimazionedella popolazione perché lapeste ne aveva sconvolto le struttureeconomico-sociali- religiose, vanificando“cento anni di pazientee tenace lavoro dei vescovi, voltoad introdurre lo spirito delTridentino”. Era diminuita la richiestadi territori ecclesiastici dacoltivare, molte vigne erano essiccate,molte terre deprezzate,molti censi perduti: “...l’intera renditadella Mensa era scesa da 1.200a 600 ducati e dal mulino leprovenivano60 tomoli di grano, controi 100 di prima”. Non si trovavanoneanche i fondi per le riparazionida effettuarsi alla cattedraleche durante la peste e la sedevacante era stata addiritturasaccheggiata dai ladri. Le stessedifficoltà si incontravano per laricostruzione delle 11 chiese “dirute”di Brienza e le 3 di Moliterno.

Oltre ai problemi economici vi eranoquelli più specificamente religiosied organizzativi: tutte le parrocchie di Marsico ed alcune della diocesi mancavano di rettore o arciprete (“né vi era chi volesse partecipareai concorsi per mancanzadi prebende”). Molte messe non venivano celebrate, i pochisacerdoti rimasti in sede “non eranoi migliori” e, spinti dalla povertà,“trascuravano i loro doveri di ecclesiastici”. In mezzo al clero di Moliterno vi erano anche “aliqui presbiteri rudes, bonis tamen moribus”.

Anche i monasteri maschilierano stati colpiti, vedendo dimezzareil numero dei monaci. Ilconvento di Brienza, che nel 1625aveva 12 frati, scendeva al numerodi 7, mentre i conventi femminilierano nelle stesse condizioni.[7]

In una causa tra il capitolo di Marsicoe l’Università di Tramutolaun testimone raccontava che per lalunga durata della peste “se nemorirono più delle tre parti dellegenti, che per mancanzade cittadinirestò la città totalmente desertadella maggior parte di essi, che tutti li territorj rimasero sterili, ed inculti”, mentre un altro testimoneconfermava che “in questa Cittàdi Marsico nuovo durò il contagio per spatio di molto tempo, che se morirno due parti de Cittadini, e detta Città restò totalmente esausta delle genti morte, che tutti li territorj, e maggior parte di essi rimase sterile, et inculti per la mancanza de cittadini morti a tempo di detto morbo pestilenziale”.

         Il morbo della peste si portò via anche personaggi illustri (così come il Don Rodrigo manzoniano) e fra questi il Principe di Atena Giuseppe Caracciolo e la Marchesa di Brienza sua cognata.[8]Questo gentiluomo era molto addentro alla classe dirigente del vicereame di Napoli e, insieme a Don Achille Capece Minutolo, Duca del Sasso (come vi racconteremo in altra occasione), in grande considerazione presso gli Spagnoli. Insieme avevano strenuamente difeso il viceré, qualche anno prima (1647-1648) e combattuto contro i rivoltosi di Masaniello, tanto a Napoli, quanto nel feudo di Brienza. Il Principe di Atena – scriveva F. Capecelatro nel suo Diario[9]negìo con buon numero degli Spagnoli datili dal Viceré ed altra gente da lui raccolta a porre in obbedienza Atena ed il Sasso, e Brienza e Pietrafesa del Marchese suo fratello, siccome rigorosamente fece, con dare aspro castigamento a coloro che avevano fallato. Fece parte della prima Deputazione di Sanità, istituita a Napoli il 16 giugno 1656 e ne fu componente fino alla morte, dovuta proprio al contagio, avvenuta il 26 agosto del 1656.

            Intanto il morbo infuriava in tutto il Regno ed appena accennava ad attenuarsi in qualche terra, insorgevano nuovi focolai in altre regioni, così che per quasi tre anni (da gennaio del 1656, in cui si ebbero i primi casi, nascosti colpevolmente, a Napoli, fino a tutto il 1658) gran parte delle terre del vicereame furono strette nella morsa della peste.

In particolare – ci rammenta ancora I. Fusco – in Basilicata, a febbraio, mentre alcune terre sane ottenevano la libertà di commercio, l’epidemia si diffondeva a Venosa, nella zona settentrionale del territorio provinciale, e vi terminava solo in estate; nei mesi estivi anche a Tramutola, centro al confine con il Principato Citra, veniva riscoperta la peste, ma probabilmente si trattò di pochi casi isolati che si risolsero in tempi relativamente brevi.E finalmente, l’11 dicembre, restituita la «pratica» anche a Candela, si permetteva a tutte le località del Regno di commerciare liberamente tra di loro e con la capitale; inoltre, erano stati rimossi gli ostacoli frapposti alle relazioni con gli altri territori stranieri, quali le stesse Roma e Genova, ragion per cui il viceré scioglieva anche la Deputazione di Salute.[10]

         E Sasso?Permetteteci alla fina una piccola nota di campanile.

         Sasso non solo non ebbe perdite fra i suoi abitanti a causa del morbo pestilenziale, ma addirittura si ritrovò subito dopo (1659, l’anno dopo il terribile triennio in cui aveva infuriato la peste) con una popolazione pressoché raddoppiata: da 100 a 188 fuochi. Per quanto una testimonianza diretta non esiste e gli stessi libri parrocchiali non ci soccorrono;mentre i registri delle nascitedell’Archivio Parrocchialedi Sasso risalgono al 1630, purtroppo il primo Liber mortuorum è successivo agli anni della peste: i primi morti sono registrati, su un volume ampiamente rovinato, per l’anno 1661. Sarebbe stato interessante confrontare questi dati con quelli, seppur descrittivi, dei registri ecclesiali, a cui ci rivolgiamo(facendoci guidare dal Colangelo[11])per avere dati più dettagliati e più vicini alla realtà, non essendo, i dati forniti dai vescovi nelle Relationes ad limina, soggetti a tagli legati o ad agevolazioni fiscali riconosciute o a tentazioni di evasione fiscale.

Diamo di seguito una tabella riassuntiva, ricostruita sui dati forniti dal Colangelo,relativa alla popolazione di Sasso e al suo clero, per un arco di tempo che abbraccia la seconda metà del XVII secolo e i primi anni del XVIII secolo.

Anno

 1659

 1661

 1664

 1670

 1675

 1677

 1714

 1736

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fuochi a)

   188

   156

   158

   171

   200

   180

   205

c)

Abitanti

   807

   834

   840

   850

   900

   950

 1112

 1560

Incremento numerico

     /

     27

       6

     10

     50

     50

   162

   448

Incremento in%

     /

  3,34

  0,71

  1,17

  5,55

  5,26

14,56

28,79

Anime da comunione

   615

   553

   561

   572

c)

c)

   867

c)

Anime da comunione in%

76,20

66,30

66,78

67,29

c)

c)

77,96

c)

Clero partecipante b)

     33

     37

     41

     42

     34

     38

     24

     22

% del clero sugli abitanti

  4,09

  4,43

  4,88

  4,92

  3,77

  4,00

  2,15

  1,41

  1. Come si può notare, i fuochi (che hanno una connotazione prettamente fiscale) e la popolazione (ricavata dai registri parrocchiali) non sono rapportabili fra di loro: nel 1659 a 188 fuochi corrispondono 807 abitanti, mentre nel 1661, a fronte di un aumento di 27 abitanti, si ha una diminuzione di 32 fuochi; tra il 1675 e il 1677 ad un aumento di 50 abitanti corrisponde una diminuzione di 20 fuochi; nel 1714 ad un aumento di soli 5 fuochi rispetto al 1675 corrisponderebbero 212 abitanti in più. D’altro canto, come avevamo già fatto rilevare prima, quest’indicazione in fuochi, fatta dai vescovi nelle proprie relationes ad limina, non corrisponde per niente ai dati ricavati dai registri ufficiali della Cancelleria, che davano per il 1669, per esempio, una tassazione focatica per 99 fuochi. Evidentemente all’epoca a nessun agente delle tasse è venuto in mente di fare un controllo incrociato!
  2. Nel clero partecipante sono compresi i chierici, anche quelli laici.
  3. I dati non sono riportati.

La chiesa ricettizia di Sasso, dunque, non solo non subì perdite, in termini di vite umane, ma vide aumentare i benefici e le rendite, come ci testimonia il trend crescente del clero partecipante per gli anni successivi al periodo della peste. Ed essendo, a quei tempi (organizzata, com’era, in chiesa ricettizia), il cuore pulsante della vita sociale ed economica dei piccoli borghi rurali come Sasso (per le cospicue proprietà, ma soprattutto, i capitali, la liquidità in grado di muovere), ci da un’idea di come Sasso non solo l’avesse scampata bene, rispetto a tutte le terre vicine, ma ne avesse tratto addirittura beneficio, per una cospicua immigrazione, forse in parte di ritorno, di famiglie anche benestanti.

E tale fu il giubilo del clero di Sasso e dell’intera popolazione, che fu deciso di dedicare a San Rocco, per antonomasia il Santo protettore dalla peste, una chiesa nel cuore del paese. Si risistemò ed ingrandì l’antica Cappella dedicata a Santa Sofia (antica reminiscenza di un culto ortodosso ormai residuato solo nella toponamastica), sita proprio accanto alla Taverna e fu intitolata al Santo di Montpellier.

 

 

 

[1]I. Fusco.La peste del 1656-58 nel Regno di Napoli: diffusione e mortalità;p. 119.

[2]S. De Renzi. Napoli nell’anno 1656. Napoli 1867; p. 156.

[3] G. Fortunato. Notizie storiche della Valle di Vitalba.

[4]I. Fusco. La peste del 1656-58 nel Regno di Napoli: diffusione e mortalità; p. 130.

[5] M. Strazza. La peste del 1656 in Basilicata. Basilicata Regione Notizie 2005; p. 125

[6]G. A. Colangelo.La diocesi di Marsico nei secoli XVI-XVIII,Edizioni Storia e Letteratura,Roma 1978.

[7]M. Strazza. La peste del 1656 in Basilicata. Basilicata Regione Notizie 2005; p. 126

[8]Donna Maria Gesualdo, moglie di Giacomo Caracciolo, Marchese di Brienzaed utile Signore di Pietrafesa, morto nel 1651, senza eredi, perché i due figli Giambattista e Diana gli erano premorti (uno giovinetto, l’altra una settimana dopo il matrimonio). Per questo Giuseppe era diventato titolare di tutto il feudo.

[9]Diario di Francesco Capecelatrocontenente la storiadelle cose avvenute nel Reame di Napolinegli anni 1647-1650.Napoli 1850-1854, vol. III,p. 270.

[10] I. Fusco. La peste del 1656-58 nel Regno di Napoli: diffusione e mortalità; p. 119.

[11]G.A. Colangelo, La Diocesi di Marsico nei secoli XVI-XVIII, citato, pp 43-48 e tavv 4-11. L’autore utilizza i dati contenuti nelle relationes ad limina dei vescovi di Marsico del 1659, 1661, 1664, 1670 (Mons. Angelo Pinerio), 1675 (Mons. Giambattista Falvo), 1677 (Mons. Giambattista Gambacorta), 1714 (Mons. Donato Anzani) e 1736 (Mons. Alessandro Puoti).

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