Notizie Biografiche del Cav. Rocco Beneventani

Vi proponiamo ora il testo integrale della biografia che il Cavaliere Domenico Vestini, nobile intellettuale napoletano, parente ed amico della famiglia Beneventani, consegnò a Cesare de Sterlich, perché la inserisse nei due volumi delle necrologie degli uomini illustri di Napoli. Ne abbiamo trovato una copia alla Biblioteca Provinciale Stigliani di Matera e ci pregiamo di far partecipi coloro che hanno a cuore la storia della nostra terra e dei nostri padri.

A leggerla con attenzione, ne viene fuori una biografia apologetica sì, ma anche una lucida, intensa, seppur breve disamina della storia del regno di Napoli fra fine Settecento e prima metà dell’Ottocento. Si riconosce il fondo affettivo, riverente verso la persona cara nei cui confronti si è nutrito profonda stima, ma ne sortisce anche, nel ricostruire la figura del grande statista, una lettura disincantata del risorgimento meridionale, dopo la strage delle menti straordinarie del ’99.

 

L’articolo che segue non è dell’autore delle Necrologie Napoletane, si bene del cav. Domenico Vestini,[1] che avendolo ancora inedito, ne fece onorevole dono all’opera donde ora vien tratto.[2]

 

Notizie Biografiche
del
Cav. Rocco Beneventani
di
Domenico Vestini
 
Dal 1. v. delle Necrologie napoletane del secolo 19. / per C. de Sterlich
 
L’esemplare dei tre soli in carta colorata
impresso
pel cav. Francesco Casella
primissimo fra i bibliografi italiani
 
Napoli
Stab. tip. delle Belle Arti
1870

 

Il cavaliere Rocco Beneventani nacque di antica e ragguardevole famiglia di Sasso, nella provincia di Basilicata, a di 21 di maggio 1777. Il padre di lui, Francesco, il quale era buono e savio magistrato, quando nel 1821 con le armi straniere ritornava la mala signoria, fu uno de’ giudici del tumulto di Monteforte. E come egli stimava meno la sua salute che conservare l’onore, votò per l’assoluzione degli accusati, nel che ebbe compagni de Simone ed il d’Amora.[3] Ma il nobile esempio non mosse l’animo del presidente che non si piegò a mite consiglio; la qual cosa, ove fosse intervenuta, un processo che commosse tutti i cittadini e che tutti pubblicamente infamarono, sarebbe riuscito a gloria de’ tribunali napolitani.

Francesco poneva il suo figliuolo Rocco dapprima nel seminario di Nola, e poscia per gli studi maggiori lo inviava in Napoli dove a quel tempo erano uomini di grande fama e dottrina: perché, a cominciare da’ tre maravigliosi ingegni del Vico, del Gravina e del Giannone, fino al 1800, in queste contrade cresceva di molto la civiltà della patria comune, l’Italia. L’economia e la legislazione a grande altezza salivano; il libro del Filangieri era tradotto in pressoché tutte le lingue di Europa; il Galanti metteva a stampa il primo lavoro di statistica che fosse compiuto in ogni sua parte; il Galiani con acume e perizia singolare distendeva il trattato della moneta; e gli uomini assunti al reggimento dello stato componevano l’amministrazione con quelle riforme che le altre province d’Italia, appena nel mezzo del secolo nostro, hanno veduto menare a fine. Ed il Beneventani si diè allo studio della economia, della legislazione e d’ogni scienza che gli alunni del Genovesi, in pubbliche e private scuole, insegnavano dall’uno all’altro capo della città.

Tratto allo splendore del foro, vennegli in desiderio di essere avvocato, e si accostò, per la pratica al de Focatis,[4] che aveva grido di chiaro giureconsulto. Il Pagano, il Conforti, il Cirillo l’accettarono nella loro compagnia, tutto che giovane fosse, ed egli poneva orecchio in modo che quelli a lui parlavano ogni sera de’ beni della scienza e delle virtù che per lei si acquistano; e così, usando sempre in casa di essi, divenne con essi insieme amatore grandissimo della patria e della libertà.

Venuto l’anno 1799, quando le nostre province si reggevano a repubblica, il Beneventani fu ufficiale dei militi; e riacquistato che ebbe Ferdinando l’antico dominio, fu condannato in esilio. Stette alquanti dì in Marsiglia, e poi n’andò a Parigi: ed ivi fattosi incontro a Bernadotte,[5] gli rivolse per gli esuli napoletani, modeste e gravi parole, dalle quali molti di essi si raccolsero sovvenzioni ed impieghi. Di Parigi si partì, e con l’esercito francese fece ritorno in Italia nel 1800; e quando, posate le armi per la pace di Amiens, i francesi ripassarono le Alpi, scelse a sua dimora Mondovì. Vivevasi in quella città quietamente, allorché seppe che la corte di Napoli era costretta a riparare la seconda volta in Palermo; ondeché egli, che tanta speranza aveva di veder composte le cose del regno, vi rientrò per tenere quel grado che convenivagli.

Ed in folla vi rientrarono gli uomini egregi, che scampati da’ pericoli e dalle persecuzioni del 1799, si erano, con dolore inestimabile del popolo, ricoverati in terre lontane. I quali tostoché giunti, furono preposti al riordinamento del governo; e perché alle parole corrispondessero i fatti e non restassero, come avviene oggidì, vote dicerie, con rimedi presti e certi provvedevano ai magistrati, alle finanze, alle province, ai comuni.

E fra questi il Beneventani, il quale d’animo, di prudenza e di bontà superava molti ed i più eletti uguagliava; ed a coloro che erano stretti a lui diceva “apparecchiamoci a far molto per rinnovellare le cose nostre”.

Né io mi meraviglio che compiessero quelle cose le quali avevano ordinate e sperate: nel che non si potrebbe lodare più la presente che la passata età.

Chi si pone innanzi i tempi prima della rivoluzione francese, e li paragona coi tempi che furono poi, giudicherà la varietà degli studi e degli uomini.

In quelli erano molti fra noi che attendevano alle scienze economiche e politiche; pochi alle lettere italiane, e di questi pochi neppure uno eccellente. Ne’ tempi a noi vicini si ritornò allo studio dei classici libri; ma l’ornata bellezza dei modi si usò solo in opere di amena letteratura.

E come sempre interviene, quando un popolo ripiglia il vivere politico ed incorrotto, che i primi scelti a reggere lo stato sieno i cittadini di più rinomanza; così nel 1799 e nel 1806 si sceglievano coloro che dettavano opere, nelle quali era più l’avvedimento delle cose; e nel 1848 e nel 1860 si sceglievano gli autori di rime leggiadre e di novelle raccontate con arte e con diligenza.

Ma la politica fa i politici e la poesia i poeti; sicché quelli governarono con la ragione; parecchi di questi hanno governato con la fantasia.

Nel novembre del 1806 il Beneventani fu eletto segretario generale de’ Demani. In quel mezzo fra le leggi che si facevano, principalissima era quella che distruggeva i feudi; con la quale il governo voleva guadagnarsi il popolo, e convertire in amore alla nuova dinastia gli odi che i vassalli portavano ai baroni. Ma col trasformare il diritto pubblico del regno entravano in campo liti innumerevoli, che con sapienza di consiglio dovevano essere decise.

E per levar via le cagioni che ritardavano la riforma, si tolsero le cause ai giudici ordinari creandosi un nuovo magistrato per giudicarle; ed alle leggi si aggiunsero decreti e regolamenti, nella maggior parte formati dal Beneventani, il quale né dì né notte si rimuoveva dalla non facile impresa. Stando in questi lavori piacque al re farlo segretario del Consiglio di stato, e poi sottintendente di Monteleone, ufficio che ricusò. Accettò invece di essere capo di divisione del ministero di grazia e giustizia, dove a quei dì seguivano due cose, per le quali maggiormente si conobbe la virtù di lui. L’una che le vecchie leggi, delle quali il tempo, i vari accidenti e gli ordini nuovi avevano scemato di molto l’importanza ed il valore, si mutavano col codice Napoleone; l’altra che uomini ornati di grande sentimento di giustizia, erano scelti a sedere ne’ rifatti tribunali, che, per opera loro, dovevano pervenire a tanto splendore.

Non erano passati due anni e dal ministero della giustizia fu trasferito in quello dell’interno.

Egli aveva opinione che l’amministrazione si può stabile giudicare, quando è fondata sopra buone leggi, per le quali un cattivo principe, anche volendo operar male, nol possa.

E quando gli parve aver disposta la materia, propose di costituire mirabili ordini di civiltà e di libertà civile, che dissipavano l’ignoranza ed affrancavano il popolo dalla schiavitù.

Del che ebbe tanta fama, che gli uomini in grado più alto, come a loro maestro, in ogni cosa gli obbedivano.

Ma a lui non veniva mai pensiero che non fosse rivolto al beneficio della patria, né dalla giustizia si dipartiva, sicché andavano a lui nobili, popolani, partigiani della dinastia di Sicilia, ed egli a tutti rendeva ragione con modi benigni e con retti giudizi.

Nel 1812 fu grande referendario al Consiglio di Stato; e poi Presidente della commissione che dovea ricomporre l’amministrazione dei Dipartimenti dell’Arno, dell’Ombrone, del Reno, del Rubicone, del Metauro, del Musone e del Tronto; e poi Prefetto del Dipartimento del Mediterraneo. Allora strinse legami di amicizia con Pellegrino Rossi,[6] che durarono invariabili. Pari di mente e di studi, onorarono l’età loro; il Rossi con gli scritti, il Beneventani coi fatti. Il quale, se non divulgava opere con la stampa, era perché sempre e solo attendeva ai pubblici affari. Le opere di lui stavano negli aiuti che poteva dar maggiori alla patria.

Simile in ciò agli uomini dei quali Venezia e Firenze, di altri tempi, abbondarono, e che, mantenendo dentro le leggi e fuori la riputazione della repubblica, non scrissero libri come il Machiavelli, il Paruta, il Giannotti; ma, uguali ad essi, furono maestri nella politica e negli ordinamenti civili.

A chi ha considerato le cose che sono seguite in Italia da che fu ridotta in parti sin oggi, gli è manifesto, che gli uomini che si sono per la patria affaticati, hanno sempre voluto che per essere felice e potente, venisse sotto un solo capo. E se ciò non aveva effetto, era perché non si potevano tor via le cagioni che la mantenevano debole e disunita.

Nel 1813 da molti, e particolarmente dal Beneventani, era tenuto Gioacchino espertissimo ad occupare l’Italia; e lo confortavano a provarsi, e meditavano di ritrarlo da ogni lega che stimassero avversa all’impresa. La quale non sarebbe riuscita difficile, perché avea propizie l’Austria e l’Inghilterra, e perché erano disfatte insino alle fondamenta le piccole signorie ed abbattuti gli antichi privilegi e le antiche costumanze; e con la invasione francese non erasi spento l’amore nazionale, ma più si destava, soprattutto in Germania ed in Italia, dove appariva prima colle lettere e poscia con la politica. E Gioacchino, spogliato d’ogni sollecitudine, disegnava condurre a fine il magnifico fatto; ma, chiamato in ajuto da chi l’aveva in singolar modo beneficato, non seppe contenere l’animo suo, e vi accorse, e lasciò tanta abbondanza di fortuna, e non fece una cosa la cui grandezza avrebbe superata ogni lode.

Il vecchio principe ritornato in Napoli per la restaurazione, non tolse l’autorità a quelli ch’erano stati nei pubblici uffici sotto i re francesi; né volle favorire la sua parte, che pure sperava il premio che le era stato promesso. Però Gioacchino aveva in Napoli molti che gli portavano affetto, i quali spesso si auguravano di trovar il modo a ridargli il regno; e siccome le ricchezze e gli onori erano di loro ragione, così avrebbero potuto sortire il desiderato fine.

Il Beneventani, fra gli altri, temendo che Ferdinando I non osservasse gli accordi, ricorreva a Gioacchino, perché nel dominio di questi scorgeva principio di libertà, ed in grandissimo gli era la dinastia, che gli ultimi casi avevano sbigottita fino a cercare salvezza, facendosi, più che seguace, serva dell’Austria. Ma secondo quello che non può apparire, perciocché questo si è occulto, Gioacchino lasciavasi indurre, senza le debite circostanze né in debiti tempi, a sollevare la Calabria, per segreti consigli dell’Austria. La quale di fresco ha scontato la colpa a Queretaro; il che non toglie che la morte de’ due nobili principi sia grave onta pei reali di Napoli e pei repubblicani del Messico.

Avvenne da ivi a pochi mesi che gli amici di re Ferdinando, i quali spogliati de’ feudi avevano perduto assai di ricchezze e di potenza, tentarono di ottenere, che la legge della feudalità fosse annullata.

Ma si levò la voce del Beneventani, che con la sua lodatissima scrittura imprese a difendere quella legge. E con molte ragioni ed esempi dimostrò, che i governi di ogni tempo avevano voluto abbattere la potestà feudale, come quella che offendeva i diritti della monarchia.

Distruggere la legge non si potea senza grave pericolo, perché i cittadini, forte loro dolendo di ricadere sotto i baroni, non l’avrebbero tolto in pace: né sarebbe savio partito di togliere a più di duecentomila famiglie la possessione dei beni che avevano per quella legge acquistato.

I patrimonii de’ comuni erano stati formati con la partizione delle terre feudali, le quali, recuperate che fossero dagli antichi signori, converrebbe aggravare le condizioni del popolo con nuovi balzelli. Né al popolo soddisfa la speranza de’ beneficii futuri, ma il provvedere a mitigare ed a non rendere maggiori i mali presenti. Ed a questa sentenza dovrebbero por mente i liberi governi de’ nostri dì; la quale al Beneventani bastava l’animo di profferire dinanzi ad un re assoluto.

Ed era ascoltata, perché la legge che distruggeva i feudi rimaneva intatta; e quanto disponevasi per quella, si rafforzava con la legge del 12 dicembre 1812, che fu lavoro sapientissimo del Beneventani, e la prima che sulla amministrazione fosse fatta in Italia.

Nel 1820 fu, su ordine del re, eletto a trattare con il Generale Pepe, che con l’esercito in ribellione tenevasi accampato a Monteforte. Ma occorse poco tempo di poi, che, avendo conosciuto l’inganno dell’una parte ed i modi scomposti dell’altra, nella quale non era alcuna ombra della virtù che ammiravasi negli uomini del 1799, risolse di abbandonare le cose dello stato.

Né le persuasioni di coloro, che col principe reggente governavano Napoli, valsero a farlo cambiare di proposito, sicché fu di necessità dargli un congedo senza limitazione di tempo, e due terzi del suo stipendio, che egli non volle ricevere mai.

Si ridusse in una casa nelle campagne circostanti di Napoli, alla quale traevano a visitarlo quanti erano stimati per dignità e per sapere.

Ed era venuto in tanta venerazione, che gli uomini accesi dal differente spirito di parte si azzuffavano fra loro, ma s’inchinavano concordi dinanzi a lui.

Quando nella città, fatta misera da soldati tedeschi, si viveva in molti travagli, egli largamente distribuiva sovvenzioni di ogni maniera a parecchi che di ricchi che erano, gli uffizii tolti recavano a povertà. Dilettavasi molto in conversare coi giovani, ed era tale efficacia nelle sue parole, che quelli, stando ad ascoltarle, s’infiammavano dell’amore della patria e della scienza.

Fin dal novembre del 1817 aveva preso in moglie la nobile donna Silvia Albanese de’ Castrioti, nata di quel Giuseppe stato membro del Direttorio della Repubblica partenopea, e che morì per le mani del carnefice, quando del sangue de’ migliori napoletani rosseggiava la piazza del Mercato.

Di lei ebbe cinque figliuoli, fra i quali Valerio, che nel Municipio di Napoli e nel Parlamento Nazionale si è appalesato degno dello intemerato nome paterno.

Allorché cominciò a regnare Ferdinando secondo, per aver fama di principe liberale, chiamava a se coloro che dopo la rivoluzione del 1820 erano stati messi da canto. E mandava ad offrire al Beneventani l’Intendenza di una provincia o altro ufficio maggiore, al ché questi non volle acconsentire, solo non ricusava di adoperarsi in cose, ch’erano di bene al paese e che non si facevano per prezzo, come per dire d’una sola nel 1831, il riordinamento amministrativo della città di Napoli.

Ma nel 1847 i principi degli altri stati d’Italia imprendevano a riformarli a libertà, e Ferdinando secondo, come sempre seguiva, quando a libertà piegavano i tempi, volgeva il pensiero al Beneventani, e lo eleggeva a Consultore di Stato. Il quale, per l’autorità ed i consigli di due suoi amicissimi Roberto Betti[7] e Roberto Filangieri, questa volta accettava.

L’anno dopo, per voto del popolo, fu Pari del Regno, ma non confidava, più che nel 1820, nel giuramento del Re e nella temperanza de’ cittadini, onde tenevasi da quei fatti lontano. Solo con assiduità e con amore intendeva ai lavori della Consulta, che aveva preso il nome di Consiglio di Stato.

Ma quando amici, o falsi, o stolti, della dinastia inducevano a migliaia la plebe, ed uomini vili e corrotti peggio di plebe, a sottoscrivere una petizione al re, perché togliesse le franchigie costituzionali, il Beneventani si opponeva a che i consiglieri avessero apposto il loro nome alla ignominiosa domanda, che doveva far pervenire il paese a maggiore tirannide.

Infermatosi poco dopo d’idropericardia, quando pei dolori del male non trovava riposo, li sopportava con rassegnazione e prendeva a confortare i suoi figliuoli che si struggevano in lagrime.

Però la notte  del dì 21 di luglio 1852, moriva quasi improvvisamente nel nome di Colui, del quale aveva osservato ad uno ad uno i suoi precetti nella operosa ed onoratissima vita.

Il suo corpo, con molta pompa, come addicevasi a tanto uomo, si seppellì; e nel funerale il cavaliere Luigi Cianciulli[8] lesse una elegante orazione. Nella sepoltura, ricca di marmi, il busto di lui fu condotto dal chiaro scultore Antonio Busciolano,[9] e la iscrizione fu distesa da Antonio Ranieri.[10]

Né io potrei meglio dare fine a queste notizie, che portando le bellissime parole, con le quali l’illustre amico del Leopardi scolpiva i fatti del Beneventani:

 

Rocco Beneventani cavaliere

Tenne gran tempo alti uffizii civili

Ultimamente quello di Consultore di Stato

D’operosa scienza di gentile natura

Lavorò leggi nobilissime

Onde ancora si governa il reame

Al cui bene ed alla virtù seppe solo chinarsi

Mite nel resto verecondo pietoso

Non dimise mai scontentato il poverello

Nacque in Sasso addì 21 di maggio 1777

Morì in Napoli addì 21 di luglio 1852 d’idropericardia

La moglie Silvia Albanese de’ Castrioti

Ed i figliuoli Valerio ed Emilio

Gli posero questa memoria.

 

 

Domenico Vestini

 

 

[1] Il Cavalier Domenico Vestini era cugino di Silvia Albanese dei Castrioti, moglie di Rocco Beneventani, poiché nipote di Maddalena Vestini (la mamma di Silvia e moglie del martire del 1799 Giuseppe Albanese dei Castrioti) per esser figlio di Gaetano Vestini (Sotto Intendente di Castellammare nel 1807), fratello minore di Maddalena e figli (come Giuseppe, primogenito) di Domenico Vestini ed Anna Avallone, di cui abbiamo già parlato altrove;  (Vite degli Italiani benemeriti della libertà e della patria, di Mariano D’Ayala, Napoli 1883, pp. 7-16). Rimase sempre molto legato alla famiglia Beneventani, sia affettivamente che culturalmente e politicamente, come ci è testimoniato dalla sua fattiva collaborazione con Emilio Beneventani nell’Opera degli Asili Infantili napoletani. Personaggio colto, erudito, amante ed esperto di libri ed opere d’arte, appassionato di teatro, collezionista, attraversò l’Ottocento napoletano da protagonista. Di lui si ricordano, oltre a questa biografia, Dialogo tra uno scolare, ed un pedante, scritto a quattro mani con Federico Bursotti, Berengario il giovane: dramma per musica in quattro atti, del 1855 e una bella biografia di Scipione Ammirato, edito ne L’aurora, strenna per la Pasqua del 1845.

[2] L’opera di cui si parla consiste nelle Necrologie Napoletane del secolo XIX di Cesare De Sterlich (dei Marchesi di Carmignano), edito in 2 volumi a Napoli dalla Tipografia delle Belle Arti, 1870. Cesare De Sterlich fu un attento cronista della vita e dei personaggi più in vista del Regno delle due Sicilie prima e del panorama culturale napoletano dei primi decenni del Regno d’Italia. Oltre a questi 2 volumi celebrativi dei personaggi illustri del Regno di Napoli, si ricordano i Quadri storici del cholera di Napoli, del 1837,  la Strenna per la commemorazione de’ morti del 2 novembre 1837: Le Vittime illustri del cholera di Napoli; e poi la Cronica delle due Sicilie, del 1841; ed ancora l’opera in tre annate successive ( 1843-1846) per la Commemorazione di persone ragguardevoli mancate alle Due Sicilie; I misteri di Napoli, del 1847; la Cronica giornaliera delle province napoletane, del 1869, ed altre.

[3] Sappiamo finalmente i nomi degli altri due coraggiosi giudici che votarono, emulando Francesco Beneventani, secondo coscienza e diritto. I due nomi erano sfuggiti, come visto precedentemente anche al Morelli, nel suo studio proprio sul processo ai rivoltosi di Monteforte.

[4] Si tratta di Don Stefano de Focatis, giudice molto apprezzato nel foro di Napoli del tempo. Era anche amico di Cosimo de Focatis, un pittore affermato, che gli fa da testimone alla nascita della prima figlia, Sofia.

[5] Jean-Baptiste Jules Bernadotte (Pau, 26 gennaio 1763 – Stoccolma, 8 marzo 1844) è stato un generale francese, divenuto poi Maresciallo del Primo Impero francese, Principe di Pontecorvo e quindi Re di Svezia e di Norvegia come Carlo XIV (VIII) Giovanni di Svezia e Carlo III Giovanni di Norvegia. Wikipedia.

[6] Economista, giurista e uomo politico (Carrara 1787 - Roma 1848). Liberal-moderato, fu nominato da Pio IX ministro dell'Interno e della Polizia, con l'interim delle Finanze, nel governo formato nel settembre 1848. Il suo tentativo di laicizzare il dominio temporale gli attirò l'ostilità tanto dei reazionari quanto dei democratici; venne ucciso in un attentato. Dizionario biografico della Treccani.

[7] Illustre letterato, dottore in legge, uomo di Stato. Nacque a Vasto il 5 settembre 1780, figlio di Benedetto Maria e di Isabella Marchesani. Fu un uomo di principi liberali e per questo venne destituito dal Ministro della Polizia, dalla carica di Intendente presso l'Aquila. Nel 1831 venne indicato da Melchiorre Delfico fra gli uomini "chiari per intelligenza e probità da mettere al governo della pubblica cosa" dal re Ferdinando II. Con decreto del 2 luglio 1831 venne richiamato al servizio del Re con la nomina di Sottintendente nel Distretto di Nola e, dopo due anni, a Reggio. Dal re venne nominato Commendatore e nell'aprile 1847 Consultore della Consulta Generale, e l'anno dopo - promulgata la legge della nuova costituzione - nominato Pari del Regno con decreto del 26 giugno Morì a Napoli il 21 settembre 1861. Dal blog Noi Vastesi di Nicola D’Adamo: Personaggi illustri di Vasto: Roberto Betti di Giuseppe Catania.

[8] Nobile napoletano, Pari del Regno e membro del Consiglio di Stato.

[9] Della sua origine potentina abbiamo parlato già precedentemente.

[10] Letterato (Napoli 1806 - ivi 1888); esule in gioventù, fu poi deputato (1861-81) e senatore (dal 1882). Il suo nome resta nella storia delle lettere accanto a quello di Leopardi, insieme al quale Ranieri visse a Firenze, a Roma e dal 1833 a Napoli, assistendolo affettuosamente sino alla morte insieme con sua sorella Paolina. A lui si deve la prima edizione delle Opere di Giacomo Leopardi (2 voll., 1845). Gli innegabili meriti che egli ebbe nei confronti del poeta sono offuscati dal libretto pubblicato nel 1880 (Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi), in cui Ranieri volle apparire piuttosto il mecenate che, come invece era in effetti, il compagno di vita di Leopardi: né mancano recriminazioni ingiuste e meschine. Ranieri fu storico attento, anche se poco originale (Della storia d'Italia dal quinto al nono secolo, 1841), e autore di un romanzo polemico a sfondo sociale (Ginevra o l'orfanella della Nunziata, 1839), che gli attirò le ire dei Borboni procurandogli alcuni mesi di carcere, e che conserva qualche interesse storico come lontano preannuncio del romanzo verista. Enciclopedia Treccani

Torna al blog

Lascia un commento

Si prega di notare che, prima di essere pubblicati, i commenti devono essere approvati.