I ‘mbrëstatë

Marzo, si sa, specie da noi a Castelgrande, è un mese particolarmente bizzoso, freddo e …instabile; le condizioni meteo le più varie si alternano in men che non si dica e nel breve volgere di poche ore si può vivere uno sprazzo di giornata primaverile, assistere ad una improvvisa grandinata, essere avvolti e sopraffatti da forti folate di bora gelida e, perché no, essere colti anche da abbondanti nevicate, specie nelle contrade più in alto.

Tanti, ma tanti anni fa, nei tempi che furono, la stagione invernale era stata particolarmente lunga, faticosa e difficile da superare, specie per tutti quelli che erano dediti al lavoro dei campi e alla pastorizia. Se per tutti l’attesa della bella stagione sembrava infinita, ad un giovane pastore questa attesa doveva sembrare insopportabile, più i giorni passavano e più diventava impaziente che le giornate diventassero più lunghe e, soprattutto, più miti perché, restare tutto il giorno a sorvegliare le pecore su e giù lungo quella contrada fatta “ … di poggi e gioghi dolcemente inclinati con distese pianure che fornisce ottimo alimento al gregge e all’armento …”[1], era, anche per lui e  nonostante la giovane età e la vigoria che ne deriva, in fin dei conti gravoso e faticoso.

Il nostro virgulto si fece sopraffare dall’impazienza e l’attesa divenne ogni giorno più difficile da sopportare, tanto che, considerando che il mese di marzo fosse quasi finito e che con esso anche la brutta stagione fosse ormai alle spalle, si lasciò scappare, dimentico di quanto i più anziani e saggi gli avevano sempre detto e cioè che la parola prima di uscire dalla bocca deve fare sette pose: “ Marzë, ngulë a marzë, tuttë rë pechërë rë ténghë a lë juazzë”.

Marzo lo sentì e decise di vendicarsi, come solo lui sapeva fare,  per far pentire di cotanta tracotanza il giovane e inesperto pastore.  Alla fine del mese mancavano ancora due giorni, ma per quello che il nostro pazzo, pazzo, pazzerello aveva in mente non erano sufficienti, si rivolse, quindi, ad aprile, molto più mite e tranquillo di lui, per chiedergli in prestito tre giorni. Aprile, nonostante la sorpresa per l’insolita richiesta e ignaro di cosa frullasse nella testa del suo incostante e capriccioso amico, accettò.

Forte dei cinque giorni che aveva a disposizione, il mese più pazzo dell’anno scatenò il finimondo, quasi che qualcuno avesse scoperchiato una sorta di vaso di Pandora. Nei cinque giorni successivi, salvo brevi pause e momentanee schiarite, tuoni, fulmini, saette, pioggia e neve in uno a fortissimi venti si abbatterono su quelle contrade.

Il giovin pastore intuì di essere stato causa del suo male e, nonostante il tardivo pentimento, alla fine di quel devastante e improvviso diluvio fuori stagione non poté  far altro che leccarsi le ferite e contare i danni che erano stati davvero tanti e superiori ad ogni umana immaginazione. Di tutto il suo gregge (la ròcchjë) non restavano che quattro o cinque pecore, quelle che era riuscito a proteggere mettendole sotto la sua mantella.

Da quella volta marzo ha sempre continuato a prendere in prestito da aprile tre giorni riservandoci, così, una coda dell’inverno quasi sempre degna di quel pazzerello che è.

  I brëllandë, così sono appellati i tre giorni di aprile che ogni anno finiscono sotto la giurisdizione, alquanto instabile, di marzo, vengono usati dai più esperti anche per trarre auspici sull’andamento delle condizioni climatiche della bella stagione ormai prossima.   

 

Alberto Muro

 

 

[1] G. Gasparrini “ Dei pascoli di Pisterola”

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