Eustachio da Matera Planctus Italiae

Ci piace questa settimana ricordare un altro grande letterato, figlio poco conosciuto della nostra terra, Eustachio da Matera, facendo un salto di diversi secoli dai convivi di Orazio, ma continuando a seguire le coordinate geografiche e storico-politiche fra Matera e Venosa, che, per di più, nei versi di Eustachio, piangono la fine di Potenza.

Mai come oggi questi versi, scritti da Eustachio intorno alla metà del XIII secolo, ci sembrano calzanti alla perfezione alla situazione geopolitica lucana attuale: due città e, dunque, due comunità, che hanno ritrovato nel loro passato le ragioni e la forza di costruire un luminoso futuro, si soffermano a “piangere” il destino crudele di una loro consorella, attraverso la voce di un poeta che le accomuna.

Ma chi era Eustachio da Matera?

Lo dice lui stesso, in alcuni versi recuperati alla fine dell’ottocentonella Biblioteca del Seminario vescovile di Potenza, in una pagina di un messale ritrovatoe poi di nuovo e definitivamente perduto, in cui erano trascritti anche i 34 versi del Planctus Italiae, che sono l’oggetto della nostra attenzione oggi.

 

Nomen Matera genitrix Eustacius, omen

Judicis, et Scribae Venusiaque dedit:

Excidium Patriae velut alter flet Hyeremias

Mundi conflictus, Italiae que malum:

Italiae fata queror Urbis, et Orbis onus.

 

Che Emanuele Viggiano così traduceva

 

Matera che mi ha generato mi diede il nome di Eustachio,

Venosa il prestigio di giudice e scrivano:

come un nuovo Geremia piango l’eccidio della patria,

la guerra del mondo, male d’Italia:

piango il destino delle città d’Italia, e la rovina del mondo

 

Eustachio da Matera (talvolta detto anche da Venosa)– ci ricorda Fulvio Delle Donne –è un poeta che ben può rappresentare l’evoluzione capricciosa delle tradizioni culturali e testualinei passaggi dalla fase medievale a quella umanistica e poi modernaSitratta di uno dei pochi autori noti che si dedicarono alla composizione poeticalatina in ambiente svevo.La menzione più importante, in contesto storico-letterario, è quella chesi trova nelle Genealogie deorumgentilium, scritte da Giovanni Boccaccio intornoal 1360…in cui è riportato un racconto, riferitogli dal suo amico Paolo da Perugia,bibliotecario di Robertod’Angiò, ed attribuito ad Eustachio, sul mito della fondazione di Genova(e di Torino).

Altri frammenti sono stati riportati qui e là, nel corso dei secoli, da vari autori, su Taranto, Napoli-Partenope, Messina, ecc. Facevano parte di un’opera monumentale, costituita da almeno 5 volumi, redatti probabilmente in forma di annales. Bella è anche una descrizione dell’Italia meridionale, fra la Puglia e la Calabria, ma il pezzo che riportiamo noi oggi è la ”Cronica dum destructafuitcivitas Potentina”(risparmiandovi, per non tediare oltre i più, l’originale in latino, che i cultori potranno reperire facilmente fra le opere del Viggiano, o fra gli studi di F. Delle Donne ed E. Cuozzo).

I fatti sono riferiti agli esiti della lunga e sanguinosa guerra fra Guelfi e Ghibellini nelle nostre contrade, quando, dopo la battaglia di Tagliacozzo (23 agosto 1268), nessun argine poté più fermare l’avanzata delle truppe angioine e papali e le città che avevano parteggiato per gli Svevi dovettero subire l’ira e la vendetta di Carlo I d’Angiò e della potente famiglia Sanseverino che, quasi annientata dall’Imperatore Federico II, favorì con i suoi seguaci l’avanzata dei francesi.

 

Allora il furore del popolo potentino travolse tutti

quelli che portavano i vessilli dell’aquila imperiale.

La città di Potenza fu generata dai boschi lucani,

e sostenuta dalla tua protezione, o San Gerardo.

Fornita di monti e di prati a perdita d’occhio

coltiva campi fecondi di greggi ed armenti.

Austera di stirpe lombarda e potente di coloni

rifulge più ricca dei suoi vicini.

Udite le furie minacciose di stragi del vincitore,

impazzì il popolo, in un turbine la turba si precipita.

Con questo furore vorrebbe placare l’ira del vincitore,

vendicarsi, fare strage di nobili.

E questo è nulla rispetto al dopo, quando giacque distrutte

le sue mura, in più punita per la sua empietà.

Guglielmo cade e la stirpe Grassinella

E alla caduta della loro casa segue molta rovina.

Viene preso quel Bartolomeo

Che chiama con molti alla rivolta,

Stretti vincoli stringono i nobili

E conducono tutti i prigionieri nella rocca di Acerenza.

Ma la sorte mutevole diede alterne vicende:

Infatti in compagnia di armati Riccardo di Santa Sofia,

Enrico di Castanea e la coorte venosina

Erano giunti, evento straordinario, ai nemici di Acerenza.

Vedono quindi venire i prigionieri.

All’inizio i capi, entrati in battaglia,

Decidono di subire il discrimine: uno fugge, un altro muore.

Un soldato con gli alleati rende libero Bartolomeo

E il fato offre un’attesa alla morte incombente.

Allora morì quel Pietro Sapienza di Basilicata,

Portando in campo l’iniquità della maggior parte della gente.

Viene tradito, e il patto della preziosa amicizia

Dall’oro sciolto. La fede diventa scelleratezza:

Oh quanto grande delitto è il funesto denaro!

I biondi metalli sottomettono anche il cielo al loro prezzo.

 

Eustachio seppe, in quei tempi difficili, prendere una posizione precisa, schierandosi apertamente per gli Svevi. Considerava, a ragion veduta sia Federico II (che era nato a Jesi)ed i suoi discendenti di casa sveva,siai loro antenati Normanni, come regnanti italici, e, di conseguenza, la venuta degli angioini come un’invasione straniera del suolo patrio, di cui ne piange la sorte, anzi piange (con secoli di anticipo) sulla sua bell’Italia.

Ene paga le conseguenze con l’esilio, come lui stesso testimonia in una quartina dello stesso libello ritrovato (e poi perso) nella Biblioteca del Seminario di Potenza.

Annis millenisbiscentumseptuaginta,

Franco regnante, Romana sede vacante,

Exilii dampnum relevans dictata per annum

Explicuit mesta vates per singula gesta.

 

Nell’anno milleduecentosettanta,

Regnando il Franco, essendo la sede romana vacante,

Alleviando le pene dell’esilio,

Dettando questi mesti fatti per anno ad uno ad uno.

 

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