8  marzo 2020

8 marzo 2020

L’otto marzo è diventato per convenzione la festa delle donne; la festa delle mimose; il giorno delle cene al femminile.

Noi ci permettiamo di ricordare, sommessamente, che al di là del vezzo diventato ormai comune di globalizzare e condividere i consumi, dimenticando, colpevolmente, le ragioni e le origini degli eventi, questa data deve continuare ad essere la giornata internazionale delle donne: una giornata di riflessione e di lotta (sì, di lotta), perché la strada per l’emancipazione è ancora lunga ed il risultato non vicino ed affatto scontato.

Ed anche se questa data appartiene al più vasto patrimonio mondiale della lunga battaglia di emancipazione femminile e non unicamente al disastroso incendio della Triangle Waist Company all’Asch Building di New York, che avvenne il 25 marzo 1911, vogliamo ricordare il sacrificio di due sorelle di Armento (Maria Giuseppa ed Isabella Tortorelli) emigrate in America in cerca di fortuna e che invece, in quel tragico pomeriggio, andarono incontro ad un’orribile morte, insieme ad altre 121 donne ed altri 23 uomini, per lo più emigranti, fra cui molti italiani.

Nel martirologio della storia minore (che poi è quella vera) ci piace assegnare un posto anche a loro.

Ed in questo giorno vogliamo ricordare una straordinaria donna, una splendida figura di poetessa che, dopo gli studi di Benedetto Croce, è diventata un po’ il simbolo della letteratura lucana; parliamo naturalmente di Isabella Morra,  sfortunata baronessa di Favale (l’attuale Valsinni), uccisa dai fratelli per una presunta corrispondenza di amorosi versi con il nobile spagnolo Diego Sandoval De Castro, signore della vicina Bollita (Nova Siri). In realtà le sue aspirazioni poetiche e la sua breve esistenza rimasero stritolate in quei periodi bui in cui Francesi e Spagnoli si contesero l’Italia Meridionale (che novità!) e ne dilaniarono tessuto sociale ed economia. Costretta a vivere in una sorta di esilio dorato nel proprio castello, insieme alla madre ed alcuni dei fratelli, in attesa del ritorno di un padre esule in Francia, che mai avrebbe fatto ritorno, sognando di ricostruirsi una vita lontana da quella valle inferna, da quelle vili et orride contrade, erme ed oscure, di selve incolte e di ruinati sassi, in quella corte (per dirla con Croce) che era il paese del suo sogno, dove avrebbe potuto allargare il suo respiro, vivere tra eguali, goder della poesia e poetare, cara al padre, a1 fratello, allo zio, lodata dagli amici.

I versi, che IsabeIla di Morra scrisse, sono di carattere assai personale e privato(sostiene Benedetto Croce), e non erano tali da circolare tra letterati e accademie … Il carattere personale dei versi della Morra e il non vedervisi segno alcuno di esercitazione o bellurie letteraria formano la loro prima attrattiva, L'autrice possedeva certamente buoni studi, aveva letto poesie classiche e aveva pratica del verseggiare e della forma italiana; ma mise in opera questa abilità, acquisita con l'educazione e  con la scuola, all'unico fine di dare qualche placamento o mitigazione al suo affanno e travaglio, e a questo fine la piegò e asservì del tutto… Questa immediatezza passionale, questo abbandono al sentimento, è la virtù della migliore poesia femminile… La giovane donna, che soffriva e desiava e sognava e si dibatteva in quel selvaggio angolo della Basilicata, e aveva nel cuore l'anelito alla bellezza dell'arte, più volte si solleva sull'émpito degli affetti e rappresenta da poeta.

Struggenti ed emblematici sono questi versi

 

D'un alto monte onde si scorge il mare

miro sovente io, tua figlia Isabella,

s'alcun legno spalmato in quello appare,

che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella

non vuol ch'alcun conforto possa entrare

nel tristo cor, ma di pietà rubella,

la calda speme in pianto fa mutare.

Ch'io non veggo nel mar remo né vela

(cosí deserto è lo infelice lito)

che l'onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna alor spargo querela

ed ho in odio il denigrato sito,

come sola cagion del mio tormento.

 

Ma bando alla tristezza. Un’altra grande donna, poetessa, intellettuale a tutto tondo e Mecenate del suo tempo, vogliamo ricordare e celebrare in questa giornata.

Si tratta di Aurora Sanseverino che nacque a Saponara (Grumento Nova), da Carlo Maria Sanseverino, principe di Bisignano e conte di Saponara e Chiaromonte, e Maria Fardella, contessa di Paceco. Il padre, amante della letteratura e delle belle arti, l’avviò agli studi di svariate discipline come latino, filosofia, pittura e musica ma la sua vera passione fu, fin da fanciulla, la poesia. A soli 11 anni, come la barbarie dei tempi voleva, fu condotta in sposa al conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma durò meno di un anno, poiché rimase subito vedova. Ritornò a Saponara per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli. Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell’Aquila d’Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte, a cui diede due figli, Cecilia e Pasquale. L’evento fu celebrato con una cerimonia fastosa a Saponara, in cui venne anche organizzato dal padre un dramma pastorale intitolato Eliodoro. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita ad un noto salotto letterario, frequentato da personalità del calibro di  Giambattista Vico, Alessandro Scarlatti, Francesco Solimena, Gian Vincenzo Gravina, Giuseppe Valletta e vari altri artisti. Oltre alla letteratura, fu un’abile cacciatrice, partecipando a battute di cinghiale sui monti del Matese.

Nel 1695 si iscrisse all’Accademia dell’Arcadia di Roma, dove assunse il nome di Lucinda Coritesia, componendo diverse poesie. Frequentò anche l’Accademia degli Spensierati di Rossano, la Colonia Sebezia di Napoli e l’Accademia degli Innominati di Bra. Per suo volere, venne fatto erigere a Piedimonte Matese, vicino al Palazzo Ducale della famiglia Gaetani, un piccolo teatro in cui precedentemente vi era il seggio comunale. Nel teatro si tennero diversi spettacoli. Sempre a Piedimonte la nobildonna si dedicò ad attività benefiche: fece realizzare il "Conservatorio delle orfane" di Piedimonte (1711), che ospitò numerose fanciulle e il "Convento delle Grazie", in cui affidò ai religiosi l'istruzione pubblica per i fanciulli della zona e la "Chiesa dell'Immacolata Concezione dei Chierici Regolari Minori"

Si spense nel 1726, all’età di 57 anni. Fu sepolta nella Chiesa dell’Immacolata Concezione, da lei fatta edificare. Gran parte della sua produzione è andata purtroppo perduta, con soli pochi sonetti ed alcuni stralci di commedie musicali a testimoniare la sua attività letteraria. Nel 1700, il teologo e poeta Carlo Sernicola dedicò a lei e suo marito Nicola D’Aragona l’opera Ossequi poetici. Giacinto Gimma la definì «una delle dame più letterate del secolo» e Niccolò Tommaseo dichiarò che i componimenti della poetessa furono «de’ più sentiti ch’abbia la raccolta». Ne proponiamo qui uno di questi.

 

 Sfoga pur contro me

Sfoga pur contro me, Cielo adirato
quanto più fai tuo crudo aspro furore
ch’indarno tenti di fierezza armato
spegner favilla al mio cocente ardore. 

Puoi ben tormi, ch’io possa in su l’Amato
volto nutrir quest’affannato cuore


ma sveller non puoi già del manco lato


il dolce stral con cui ferimmi Amore. 

Siami pur forte rea ogn’or più infesta
viva pur l’alma in pianto ed in cordoglio
che il mio fermo desir ciò non s’arresta. 

Io son di vera fede immobil scoglio
cui di continuo il vento, e ‘l mar tempesta
ma non si frange al lor feroce orgoglio. 

 

 

         Per concludere proponiamo, con simpatia ed allegria, a tutte le donne, a mo’ di mimosa letteraria, un omaggio poetico floreale con i versi del grande poeta ed adulatore che in queste pagine andiamo trattando: Luigi Tansillo

 

Madrigale II

 

In dir, che sete bella,

Scemo la vostra lode,

Madonna,

E mi riprende ognun, che m'ode

Non v'è nome conforme a quel che sete:

Non so che cosa avete

Più dell'uman, più del divino ancora:

I capei dell'Aurora,

Gli occhi del Sol,

La fronte della Luna:

E se bellezza alcuna

Immaginar si può, che non si vede;

La veggio sol'in voi, ch'ogni altra eccede.

Né più bella di voi esser potria

Bontà, s'avesse corpo, o leggiadria.

 

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