Il ramo dei Beneventani che dimoravano nell’omonima via

Il ramo dei Beneventani che dimoravano nell’omonima via

Abbiamo visto, nel primo capitolo sulla famiglia Beneventani, come un momento di svolta cruciale, nella vita politica, sociale e culturale di Sasso, furono i primi mesi del 1799.

Gli ideali di Mario Pagano, della Pimentel Fonseca, di Cirillo, di Albanese, di Caracciolo e degli altri martiri della Rivoluzione Napoletana avevano investito fin dall’inizio questo piccolo centro interno del Regno di Napoli, mutuati molto probabilmente da studenti di Sasso che vivevano a Napoli, come Rocco Beneventani, Gaetano Taurisani, Giambattista Giachetti Taurisani ed altri, o dalla piccola intellighenzia locale, professionisti e sacerdoti, che mantenevano rapporti costanti con i paesi convicini e con la capitale.

Per la verità, già nel decennio precedente la rivoluzione del ’99, vi erano stati a Sasso moti contadini (turbolenzie cittadine), promossi e capeggiati dallo stesso gruppo di intellettuali che troviamo qui implicati.

Furono moti diretti all’occupazione delle terre demaniali.

L’aumento sensibile delle popolazioni nella seconda metà del settecento e, soprattutto, l’accresciuto peso politico ed economico della piccola borghesia locale, mal si conciliavano ormai con il rigido sistema feudale che i borbonici avevano ereditato dalla dominazione spagnola.

La stessa monarchia borbonica, conscia di queste problematiche, aveva avviato, in particolar modo con Carlo III (ricordiamo l’istituzione del catasto onciario), ma ancora con il figlio Ferdinando IV (sempre sotto la guida attenta e lungimirante di Bernardo Tanucci), una serie di riforme liberali, allo scopo di disinnescare la bomba sociale sul quale il sistema si trovava a sedere e di liberare dalle pastoie del feudalesimo la componente più dinamica e produttiva della nuova società che si andava delineando(la piccola borghesia terriera e la piccola imprenditoria manifatturiera), incoraggiandola e dandole dignità politica.

I contrasti furono vivacissimi ed anche a Sasso videro in prima linea un gruppetto di intellettuali: il medico Donato De Luca e l’avvocato Gaetano Taurisano, ma ebbero guai con la giustizia, di natura politica, anche il figlio di Donato, Carmelo De Luca, pure lui medico, e Donato Coronato, cancelliere comunale.

Alcune riforme, culminate con la Prammatica del 1792, che Ferdinando IV si affrettò ad emanare, spaventato dalla rivoluzione francese,[1] diedero l’illusione alle popolazioni del regno che fosse giunto il momento di dare la spallata definitiva al vecchio sistema.

Tuttavia, la piccola borghesia e l’intellighenzia locale, sospettose della piega più decisamente radicale che i moti andavano assumendo e spaventate dalla possibilità di veder travolgere alcuni privilegi che avevano conquistato nell’ordinamento sociale, presero ben presto le distanze dalle turbolenzie che esse stesse avevano fomentato, determinandone non solo il fallimento, ma creando quella frattura politica e sociale che, a nostro avviso, sarebbe stata poi alla base del fallimento della rivoluzione del ’99.

La congiura del 21 marzo 1794 a Napoli innescò un meccanismo di repressione che si allargò anche alle provincie e coinvolse tantissimi cittadini che sicuramente con la congiura giacobina non c’entravano nulla e che furono inquisiti per reati vari, ma accomunati nella dizione comune di rei di Stato. Naturalmente una prima scrematura delle istruttorie fu affidata alle Regie Udienze Provinciali e alla Regia Udienza di Matera toccò esaminare 107 pratiche di cittadini della Provincia di Basilicata e fra questi alcuni sassesi [2].

Un ruolo da protagonista assoluto ebbe, in tutte queste vicende, il ramo della famiglia Beneventani che aveva la dimora in quella che fino a tutto il Settecento veniva chiamata Via di San Rocco (o Strada sopra la Strada) [3] e che, in seguito, fu dedicata proprio ad un rappresentante di questa famiglia che vi era nato ed aveva portato gran lustro e notorietà a tutta la comunità sassese: Rocco Beneventani.

La casa fu edificata verosimilmente nei primi decenni del XVIII secolo,[4] in quello che andava a rappresentare il nuovo quartiere residenziale delle famiglie più facoltose (massari, professionisti,componenti del clero), che lo sviluppo economico e demografico stavano incrementando anche in queste remote contradedel neonato Regno Borbonico.

Queste nuove dimore avevano dimensioni e struttura di case palazziate: stalle, magazzini e cantine a piano terra (o seminterrato, nel nostro caso, per meglio sfruttare la pendenza del sito) ed abitazione spaziosa e luminosa al piano superiore. Vi era ancora un giardino ed un pozzo per attingere acqua potabile.

Nel Catasto Onciario (del 1743) la dimora dei Beneventani è rivelata ancora nella Contrada Pezza la Corte, per un valore complessivo di ducati 23,10 (stimata poter rendere, affittandosi, ducati sette) e risulta avere “un orto attaccato di misure cinque, con pozzo dentro”.

Risulta abitata all’epoca da questo nucleo familiare:

Magnifico Notaio Tommaso Beneventani__di anni 34

Magnifica Teresa De Frieri, moglie __di anni 25

Chiara, figlia __di anni 3

Paolo Antonio, figlio __di mesi 10[5]

Don Antonio Cantore Beneventani __di anni 36, fratello del notaio

Magnifica Catarina Doti, vedova __di anni 58: la loro madre.[6]

Le fortune di questa famiglia cominciano, dunque, con questa generazione ed in particolar modo con Tommaso, che esercita la professione di notaio a Sasso tra il 1733 e il 1775.

Per la verità è proprio il notaio Tommaso Beneventani a dare inizio ad una vocazione (che diventerà tradizione e marchio caratterizzante di famiglia) di battaglie per la giustizia e di ribellione verso l’assetto feudale cristallizzato, nei nostri territori.

Scorrendo i registri del fondo dell’Antica Giurisdizione, nell’Archivio di Stato di Potenza,in cui sono annotati i titoli delle cause che da tutte le corti locali passavano per competenza alla Regia Udienza di Basilicata, troviamo, al Mazzo 489: “Antonio Taurisani, razionale della Terra del Sasso: inquisito di falsità compiute in alcune lettere significatoriali spedite in beneficio di Andrea Tofalo, passato sindaco del Sasso, per opprimere colla vendita e giudicazione de’ di lui beni pell’indebita soluzione di docati 62; a ricorso e querela di detto Andrea”; nello stesso processo il notaio Tommaso Beneventani, che svolge mansioni di Cancelliere della Corte, è inquisito per “intelligenza”. Ed al Mazzo 492: Giovanni Margaglione e Domenico Curto, bargelli, insieme a Nicola Palermo, Michele Curto e Giovanni di Donato Pepe, sono inquisiti di “ignominiosa ed indebita carcerazione” del Dottore Nicola De Angelis, Governatore di Castelsaraceno, e di altri 3 individui spediti a Sasso dal Barone Piccinni in qualità di Commissario ed armigeri. Il notaio Tommaso Beneventani è inquisito a sua volta di “tumultuosa assistenza con unione di gente”.

D’altronde, se si fa una disamina attenta degli atti notarili da lui rogati nell’arco del quarantennio abbondante della sua attività professionale, possiamo trovare un gran numero di atti pubblici che contengono coraggiose e circostanziate denunce di soprusi politici, economici, amministrativi, verso sia i governatori che si succedevano nell’amministrazione della giustizia a Sasso, sia pure verso il feudatario in persona.

Ne esce un quadro di fermento economico e sociale della piccola proprietà terriera e della piccola borghesia intellettuale di questi borghi, che andrebbe studiata meglio e nei dettagli.

Il Cantore Don Antonio Beneventani, suo fratello, che a 36 anni è già la seconda figura nella gerarchia del clero di Sasso e manterrà questa dignità fino alla morte (avvenuta di certo dopo il 1773), nonostante abbia dimorato a lungo fuori da Sasso (prima a Napoli e poi a Gallipoli) e, dunque, fino a quando proprio il nipote Don Paolo Antonio, che qui troviamo in fasce, non gli succederà in questa carica.[7]

Il secondo figlio del notaio Tommaso, il Dottore in legge Francesco Beneventani, nato dopo il 1743, viene a costituire, in questa famiglia, lo snodo cruciale. Aveva sposato, nel 1774, Maria Sarli, di una ricca famiglia di Abriola (nella quale si distinse, sempre come repubblicano, il fratello di lei Vincenzo).[8]

Verso il 1789 – ci informa Pedio – promosse nel suo paese moti contadini diretti all’occupazione di terreni demaniali e fu deferito alla Regia Udienza Provinciale, insieme ad altri 21 suoi concittadini, avendo arrecato grave danno all’Università del Sasso, per aver partecipato ad una “…grande incisione di alberi fruttiferi, di cerri ed altri…nel Bosco e Difesa…appellato Fontana del Melo…”.[9]

Nel febbraio del 1799, come detto in altro capitolo, era avvocato dell’Università del Sasso, ma questo non gli impedì di schierarsi con il movimento repubblicano fino ad esserne acclamato Capo della Municipalità repubblicana. A marzo, reciso l’albero della libertà e piantata la Santa Croce sanfedista nella piazza di Sasso, venne arrestato, insieme all’arciprete Taurisani e agli altri capi della cospirazione, ed incluso fra i “rei” di Stato.

A suo carico si legge nel Notamento dei Rei di Stato: “Don Francesco Beneventano del Sasso alla notizia venutagli dal figlio commorante per studio in Napoli che i Francesi erano entrati nel Regno sparse massime sediziose sparlando della Sovranità”. [10] Dell’atto pubblico, estremo tentativo dei suoi concittadini di salvarlo dalla repressione borbonica, abbiamo riferito in altro capitolo.

Usufruì dell’indulto e dopo questi fatti si allontanò da Sasso ed andò a vivere, insieme al fratello Don Paolantonio ed all’altro fratello sacerdote Don Diego, nella casa di loro proprietà a Napoli, in Strada sopra la Madonna delle Grazie n° 10.

A Napoli continuò ad esercitare la sua professione di avvocato ed uomo di giustizia e dovette farlo così bene da essere nominato componente della Seconda Camera Penale di Napoli: ne risulta componente già nel luglio 1817.[11]

Il valore dell’attività forense dell’Avvocato Francesco Beneventani e la stima di cui godeva presso le alte cariche del Regno di Napoli ci sono testimoniati dal decreto del 6 maggio 1815, firmato dal Duca di Gallo, in cui il Gran Cancelliere dell’Ordine delle Due Sicilie conferisce, dietro ordine del Re, la Medaglia d’Onore al Signor Francesco Beneventani, Giudice della Corte Criminale di Napoli.[12]

E quando fu istituita, con un sovrano rescritto del 25 giugno 1821, la Gran Corte Criminale Speciale per giudicare i rivoltosi di Monteforte, fu chiamato a farne parte.[13]

E qui scopriamo che il Dottore in utroque jure Francesco Beneventani, nonostante le mutate condizioni politiche (dopo la restaurazione del 1815, in cui fu protagonista il Cancelliere austriaco Metternich), nonostante i suoi trascorsi politici e giudiziari, nonostante l’avanzare dell’età ed incurante del fatto che la nomina venisse dal Re in persona, continuava a mantenere la schiena dritta, forte, probabilmente, non solo del suo carattere indomabile e del suo alto senso della giustizia, ma anche di un’autorevolezza e prestigio professionale-giuridico, che gli consentiva di argomentare un dissenso non facilmente rappresentabile in quel clima storico-politico.

Il processo si concluse con la sentenza del 10 settembre 1822 (nel clima di repressione e di terrore che il Re Ferdinando volle instaurare dopo i moti del 1820-21), con la condanna di gran parte degli accusati: 30 condanne a morte (28 delle quali poi trasformate in carcere a vita (o ferri per 30 anni) da uno speciale decreto di clemenza del Re Ferdinando, datato 10 settembre 1822) e 13 condanne “ai ferri” per 25 anni (poi alleggerite dallo stesso decreto a 18 anni).

Condanna esemplare a cui non poterono sottrarsi i due capi riconosciuti della rivolta di Monteforte Irpino: Michele Morelli, figlio di Giuseppe, di anni 30, di Monteleone, ex Sotto-tenente del reggimento Real Borbone cavalleria; e Giuseppe Silvati, di Gennaro, d’anni 31, di Napoli, ex Sotto-tenente del reggimento Real Borbone cavalleria. Furono impiccati, lo stesso giorno della condanna, nella Piazza Capuana di Napoli.

A nulla valse lo strenuo e coraggioso tentativo da parte del giudice Francesco Beneventani (e di altri due componenti della Gran Corte Speciale) di evitare le condanne e procurare loro l’indulto.

Ci informa Vincenzo Morelli, in una sua breve ma incisiva pubblicazione del 1926, dedicata proprio alla figura del giudice Beneventani (Un giudice dissidente nella "Causa di Monteforte”)[14], di aver reperito anni addietro, a Napoli, in una Mostra del 1911, commemorativa del cinquantenario dell’unificazione del Regno, …un fascicolo manoscritto recante a lato la seguente apologetica didascalia: Ragioni per le quali il Giudice della Gran Corte Criminale D. Francesco Beneventani dette coraggiosamente il suo voto di assoluzione per tutti gli accusati nella causa militare detta di Monteforte”…Il fascicoletto manoscritto – ci informa poi lo stesso V. Morelli – era stato portato alla mostra dal compianto Avv. Benvenuto Beneventani, che aveva consentito di consultarlo e, nel 1926, si conservava ancora a cura della moglie (Anna: n.d.r.) dell’avv. Beneventani.

1820 Napoli: ingresso festoso dell'abate Minichini a Napoli  assieme agli altri costituzionali  in una stampa popolare dell'epoca

Nel commentare la composizione della Gran Corte Speciale, il Morelli ci avverte che scorrendo gli atti della Commissione di Scrutinio pei Magistrati, di pochi mesi precedenti la convocazione, trova, di Francesco Beneventani, …questi cenni biografici, nella caratteristica prosa ufficiale dell’epoca: “surse a tempo dell’occupazione militare, aiutato dal figlio D. Rocco. Fu impiegato prima nell’Amministrativo, indi ottenne la carica di Giudice in questa Gran Corte Criminale. È fama che fosse stato carbonaro nella “vendita” del Cavone. È sicuro però che allorquando l’abate Menichini venne in Napoli coi rivoltosi, fu nella di lui casa. Nell’ esercizio della carica non porta mal nome, essendo di umore placido e sofferente. Non avendo avuto istituzione regolare conosce la materia criminale piuttosto per pratica che per averla appresa allo studio”.

Or ecco, nella discussione che precedette di due giorni la sentenza famosa di condanna capitale – prosegue il Morelli – sostenersi da taluni dei giudici in favore degli accusati l’applicabilità dell’amnistia dell’8 agosto 1820 ed in conseguenza l’assoluzione per tutti. La eccezione di amnistia era stata, per vero, invocata dapprima dai giudicabili Ermenegildo Piccoli, Atlante Canudo,… vi avevano poscia aderito il Morelli, il Silvati, il Tupputi e gli altri. Ma fu proprio Francesco Beneventani, fra i colleghi della Gran Corte, a compendiare le argomentazioni a sostegno della tesi in memoria che, scritta e sottosegnata di suo pugno, volle prepararsi per la discussione orale.

Il Beneventani divide la sua discettazione in due parti. Nella prima egli pone – e risolve in senso affermativo – il quesito se il reato di rivolta contro i poteri dello stato sussistesse giuridicamente come tale all’epoca di quell’amnistia; nella seconda, più minuziosa ed erudita, se nel decreto 8 agosto – che dice ispirato al sentito bisogno di pacificazione sociale e politica – dovesse quel reato intendersi compreso.

Tentativo generoso, come ognun vede, di salvataggio – afferma il Morelli – coerente più alla sua fede di carbonaro che alla sua funzione di magistrato del Governo Borbonico; benché, d’altro canto, non vi faccia difetto una tal quale sagacia di argomentazione teorica.

La presa di posizione del giudice Beneventani apre comunque un fronte etico-giuridico fra i componenti della Gran Corte ed altri due giudici abbracciano le sue ragioni. Tant’è che, come risulta dai verbali della sentenza, la maggior parte delle Quistioni (tutte le sentenze di condanna, ad eccezione di quella di Morelli e Silvati) sono prese a maggioranza di cinque su tre. Ovviamente quelle di assoluzione sono prese all’unanimità.[15]

Lo sforzo restò vano, come detto precedentemente: la causa si concluse con la condanna della stragrande maggioranza degli imputati. Questa era la volontà del restaurato governo. È rimasto però, a memoria dei posteri, il coraggio e la rettitudine morale di Francesco Beneventani.

La tesi che diremmo di minoranza – conclude il Morelli – avendo oltre al Beneventani raccolti altri due aderenti non potuti da me identificare,[16] rimase dunque soccombente, alla votazione.

Rimase, così, l’episodio. Episodio nel quale il Beneventani, se non ebbe il gesto eroico e risolutivo (la sua partecipazione ulteriore ai lavori giudiziari non si limita al primo processo, ma perdura fino al 1824, e la sua firma figura negli atti processuali a carico dei contumaci) dimostra tuttavia pur sempre del coraggio: se si pensi al mutato clima politico in cui l’audace tentativo egli sperimentava, se si guardi alla reazione imperversante nell’Italia meridionale dopo il ’21…

Giova appena qui aggiungere che il Beneventani, dimesso nel 1824 dai ruoli, non fu di quei funzionari che, come suol dirsi, fanno carriera. E pour cause. Ma bisogna ammettere del pari che, almeno nei confronti di lui, il Borbone non abbia mancato di usare di quella temperanza di cui sappiamo avergli l’Austria fornito, come già nel 1815, il padronale suggerimento.

        

Il Giudice della Gran Corte Criminale Don Francesco Beneventani si spense, a settantaquattro anni, nella sua casa sita in Strada Costantinopoli, n° 26, nel Circondario di San Lorenzo. Era vedovo da ormai quasi trent’anni.

Maria Sarli, sua moglie, era morta ancora giovane il 22 luglio 1795 ed era stata seppellita nella Chiesa Madre della Santissima Annunziata di Sasso.[17]

Il Reverendo Cantore della Chiesa di Sasso, Don Paolantonio Beneventani, che si era trasferito a Napoli, nella casa di famiglia, come detto precedentemente, non fece più ritorno a Sasso: morì il 20 settembre 1826, ormai ottantaseienne, nella nuova casa in cui si era stabilito, in Via San Giuseppe de’ Nudi n° 75.[18]

       

In un primo tempo, come detto, anche il Reverendo Don Diego Beneventani si era trasferito e viveva a Napoli, insieme al fratello Francesco, all’altro fratello Cantore Don Paolantonio ed ai nipoti Rocco e Maria Teresa. Un atto del notaio di Sasso De Luca Michelangelo ci testimonia che nel 1812 era con la famiglia a Napoli.[19]

Successivamente (non sappiamo bene quando) torna nella terra natia, ma si trasferisce definitivamente a Calvello.[20]

Va a far parte del clero di quel paese, e non proprio da fraticello mendicante, se il fratello Rocco ed i nipoti Emilio e Valerio, nel 1848, si risolvono a vendere al comune di Calvello una spaziosa dimora.

Autorizziamo il comune di Calvello in Basilicata ad acquistare da’ Signori Cavaliere D. Rocco Beneventani, D. Emilio e D. Valerio Beneventani suoi figli, un casamento di costoro proprietà sito in quel comune, per addirlo ad uso del giudicato regio, del carcere correzionale, e della caserma per la guardia della pubblica sicurezza, per lo prezzo netto di ducati ottocentoquaranta e grana 38, pagabile a ducati ottanta all’anno… recita un Decreto Regio (il n° 669) del 16 dicembre 1848.

        

Anche Maria Teresa Beneventani, figlia di Francesco e Maria Sarli, nata nel 1787 a Sasso, aveva seguito la famiglia nel trasferimento in quel di Napoli.

E lì trovò da maritarsi, il 9 dicembre 1810, con Domenico Sassano, un giovane benestante abitante a Napoli, figlio di Nicola e Maria Emmanuela Sarli, di origine di Trivigno, in Basilicata.

E proprio a Trivigno si trasferirono successivamente i due coniugi; e lì la colse una morte prematura (meno che quarantenne), il 16 gennaio 1827.[21]

         Visse invece sempre a Sasso, in una casa di sua proprietà, in contrada Serrone, l’altro figlio del Dottore Francesco, Giuseppe Beneventani, nato intorno al 1780.

Partecipò attivamente alla vita politica ed amministrativa del paese

Fu sindaco negli anni 1811-1812, poi nel 1824, poi ancora dal 1836 al 1839, di nuovo nel 1846 ed infine negli anni dal 1852 al 1857.

Le sue condizioni socio-economiche le possiamo ricavare dalle liste degli eligibili alle cariche comunali, distrettuali e provinciali del Comune di Sasso, Distretto di Potenza, Provincia di Basilicata. In quella approvata il 10 settembre 1821[22], troviamo Don Giuseppe Beneventano, di Francescantonio, di anni 41, di professione proprietario, scrivente.

Nella lista degli eligibili del comune di Sasso, stilata il 4 dicembre 1832, troviamo Beneventano Don Giuseppe, di Francescantonio, di anni 52, proprietario, scrivente, con un’imponibile fondiaria di 15 ducati e, perciò, eleggibile a tutte le cariche.

Muore prima del 1865, poiché suo figlio, Beneventani Don Francescantonio risulta iscritto come fu Don Giuseppe nell’Elenco del 1865 degli elettori[23]  per la nomina dei consiglieri comunali e provinciali di Sasso di Castalda, Mandamento di Brienza, Circondario di Potenza, Provincia di Basilicata.[24] Francescantonio era nato a Sasso il 28 maggio 1825; viene registrato di condizione sociale Proprietario, con Censo riconosciuto di 116 Lire e 13 Centesimi,

A Sasso visse pure Chiara Beneventani, alla quale la famiglia assegnò in dote, fra le altre cose, la dimora in cui avevano vissuto gli antenati, nella Strada sopra la Strada, attualmente Via Rocco Beneventani. Aveva sposato il notaio Michelangelo De Luca,[25] per lungo tempo Cancelliere comunale e, perciò, personaggio centrale della vita politica ed amministrativa di Sasso, nella prima metà del XIX secolo.[26]

Ebbero cinque figli maschi: Dionigi e Francesco, che divennero entrambi sacerdoti e fecero parte del clero di Sasso; Alfonso, che si avviò alla professione di medico; Luigi ed infine Vincenzo, che dimorò nell’antica casa dei Beneventani.

Suo figlio, il notaio Michele De Luca, fu l’ultimo ad abitare stabilmente in quella casa; morì giovanissimo (a soli 43 anni) nel 1907; la moglie, Giulia Palladino, era già morta, ancor più giovane di lui; ed i due figlioli, Vincenzo e Francesco, furono allevati amorevolmente da parenti.

La dimora dei Beneventani fu adibita, a quel punto, a scuola ed altre funzioni pubbliche, finché non fu venduta alla famiglia Perrone.

Attualmente una parte di questa antica dimora, per una scelta coraggiosa ed intelligente di una coppia di giovani che vi vivono, prova a rinverdire la memoria ed i fasti dei Beneventani e ad offrire un soggiorno emozionale in un B&B (Terra del Sasso), che riesce a coniugare storia e cultura, eleganza e tradizione, in un bellissimo borgo che non si può non visitare.

 

 

[1] Non dimentichiamoci che la moglie di Ferdinando IV, la regina Maria Carolina, era sorella della regina di Francia Maria Antonietta!

[2] A registro risultano i seguenti nominativi: Cammarota Caterina, Curto Domenico, Curto Giuseppe, Curto Vito, Doti Saverio, Gaito Caterina, Langone Giovanni, Langone Maria, Langone Michele, Langone Teresa, Macchia Giuseppe, Macchia Michele, Macchia Rocco, Oliveto Caterina, Oliveto Teresa, Pagano Domenico, Palumbo Nicola, Pepe Francesco, Pepe Maddalena, Pepe Rocco, Pepe Rosaria, Pepe Teresa, Perrone Saverio, Romagnano Rocco, Rotundo Donato, Rotundo Francesco, Rotundo Michele, Sapienza Giuseppe, Taurisano Francesco, Taurisano Gaetano; I procedimenti penali nei confronti di tutti i rivoltosi coinvolti nei moti del 1794 furono poi bloccati nel 1797 quando il re Ferdinando IV dispose di “dichiarare estinta l’azione penale” per tutti i “rei di lesa Maestà” deferiti alla Giunta di Stato. T. Pedio, La Congiura Giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, p 216 e n 69.

[3] La Strada era fino al XX secolo l’attuale Via Roma, realizzata nel corso del cinquecento per collegare il vecchio borgo medievale di Sasso (che aveva il suo cuore pulsante nella Civita (intorno all’antica chiesa madre dedicata a San Nicola e all’adiacente Piazza dell’Olmo) ed il Casale (piccolo aggregato di case intorno alla Cappella di Sant’Antonio Abate) con la nuova Chiesa Madre (dedicata all’Annunziata) e, più avanti, con l’antica Fontana pubblica, che si ergeva ai margini della Pezza della Corte (ancora oggi appellata Fontana Vecchia, nel Largo Mimmo Beneventano). Su questa nuova via cominciarono ad essere edificate le case dei professionisti e delle famiglie abbienti, stanche di vivere nei vicoli stretti e scomodi ai piedi della rocca, o delle famiglie che si stavano trasferendo da Pietra Castalda. Su questa Strada fu edificata, all’inizio del seicento, la casa palazziata dei Marchesi Caracciolo di Brienza.

La Strada sopra la Strada venne poi chiamata la parallela che, un po’ più a monte, univa il largo davanti l’antica Taverna e davanti la chiesa da poco dedicata al Santo protettore della peste (un tempo con il titolo di Santa Sofia), ancora alla Pezza la Corte e la Fontana Pubblica. Su questa nuova strada si affacciavano le nuove dimore (munite di giardini e pozzi autonomi per l’approvvigionamento idrico, per sé e per gli animali domestici) dei nuovi ricchi (notai, dottori in utroque Jure, medici, sacerdoti e piccoli proprietari terrieri) che l’espansione economica e demografica nel settecento borbonico aveva procurato anche a Sasso.

 [4]Il portale originario porta la data del 1737.

[5] Il futuro Cantore della chiesa di Sasso Don Paolo Antonio Beneventani (di cui ci siamo occupati nel capitolo precedente), fratello del Dottore in utroque Jure Francesco, che nel 1743 non è ancora nato.

[6] Aveva sposato Diego Beneventani.

[7]Don Paolo Antonio è Cantore già nel 1990 e lo resterà fino ai moti del ’99.

[8] Il notaio Rocco Coronato, di Sasso, roga un atto di capitoli matrimoniali fra il Dottore Don Francesco Beneventani e Maria Sarli, di Abriola, che porta in dote, fra l’altro, 1250 ducati. Archivio di Stato di Potenza. Atti Notarili. Distretto di Potenza. I° Versamento. Notaio Coronato Rocco. Vol. 4472. Anno 1774.

[9]Ecco che continua la tradizione ribelle di famiglia.

[10]T. Pedio Uomini aspirazioni e contrasti nella Basilicata del 1799. I rei di stato lucani del 1799; p 298.

[11] C. De Nicola, Diario napoletano 1780-1825, Napoli 1906, III, p. 123

[12] Dal Catalogo della Mostra di ricordi storici del Risorgimento Meridionale d’Italia (1912; p. 238), organizzata a Napoli nel 1911 dal Comitato per le feste commemorative del cinquantenario del Plebiscito meridionale, presieduto da Salvatore Di Giacomo, con la collaborazione di Benedetto Croce e, fra gli altri del suo pupillo: Enzo Petraccone, giovane e sfortunato studioso di Muro Lucano, che finì i suoi giorni sugli stessi monti e negli stessi giorni in cui altri due giovasni intellettuali della Famiglia Beneventani si immolavano per una guerra inutile ed assurda. Nella stessa Mostra fu esibito, appeso ad una parete, un ritratto di Francesco Beneventani, portato lì dai fratelli Beneventani (Beneventani Signor Rocco e Beneventani Signor Benvenuto), p. 250 e LV.

[13] Si legge nella premessa del Registro della Gran Corte Speciale: “La Gran Corte Speciale di Napoli, seconda Camera, procedendo per ispeciale delegazione di S. M. in esclusione di ogni altra, ed intervenendo i Signori D. Domenico Girolami Vice-presidente onorario, D. 0ttavio Giunti, D. Francesco Beneventani, D. Carlo de Simone, D. Beniamino Giovenale, D. Nicola Damora, giudici di detta seconda Camera: D. Vitantonio de Feo e D. Gennaro Ricca, giudici della prima Carnera, chiamati a compiere il numero di otto votanti: assistita dal Vice-cancelliere D. Giuseppe Maria Neri, e coll’ intervento del P. M. rappresentato dal Procuratore generale sostituto D. Gaetano Brundesini.

[14] Morelli V. Un giudice dissidente nella "Causa di Monteforte”, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, I.T.E.A. Napoli 1926.

 

[15]Decisione della Gran Corte Speciale Di Napoli, specialmente delegata da S. M. (D.G.), nella Causa contro i rîvoltosi di Monteforte ed Avellino per la ribellione in detti luoghi scoppiata nel 2 di luglio 1820. Napoli, nella Stamperia della Società Filomatica. Per ordine superiore. 1822.

[16] Furono D. Nicola Damora e D. Carlo de Simone, come ci informa Domenico Vestini nelle sue Notizie biografiche del Cav Rocco beneventani

[17] La data di morte si ritrova nell’Atto di Matrimonio del figlio Rocco ed è confermata anche nell’Atto di Matrimonio della figlia Maria Teresa. ASN

[18] Comunque il legame affettivo con la Terra natia non fu mai spezzato, se a dichiarare la sua morte, davanti all’Ufficiale del Circondario dell’Avvocata, del Comune di Napoli, si presentarono il sacerdote Don Nicola Miraglia di Trivigno, abitante nei pressi della casa dei Beneventani, ed il negoziante Michele Langone, di Calvello, che abitava in Via della Pigna Secca n° 9. Dall’Atto di morte: ASN Anno 1826

[19] Archivio di Stato di Potenza. Atti Notarili. Distretto di Potenza. III° Versamento. Notaio De Luca MIchelangelo. Anno 1812. Vol. 4315.

[20] Lo si evince da un altro atto del notaio Michelangelo De Luca, del 1836; questo notaio, peraltro, è entrato in famiglia, sposando Chiara Beneventani, l’ultima figlia del Magistrato Francesco, a cui spetterà poi la casa atavica nella via intitolata al fratello Rocco Beneventani, di cui ci stiamo occupando.

[21] La notizia del luogo e della data della morte la ricaviamo dall’Atto di Matrimonio della figlia Maria Rachele Sassano, che il 5 ottobre 1851 sposò l’avvocato di Abriola, Pasquale Marinelli, di Vincenzo e Marianna Pacsarelli. ASN

[22] Redatta dal Cancelliere Michelangelo De Luca. Sottoscritta dal sindaco Nicola Beneventani e dai Decurioni Langone Giambattista, Beneventano Saverio, Sforza Saverio, Pepe Giuseppe, Coronato Matteo, Doti Raffaele e Tofalo Rocco, che è anche cassiere.

[23]Sono in totale 43, di cui 41 aventi diritto per censo (vale a dire per le tasse pagate Il minimo di censo per poter accedere al diritto di elettore era di 5 lire.), e 2 (il medico e il farmacista) per qualità, su una popolazione complessiva di 2695 abitanti. Confrontando gli elenchi esibiti per gli anni precedenti, durante il regno borbonico, vi è una notevole contrazione del numero degli elettori, sia in termini assoluti che percentuali.

[24]La lista è stata compilata dal Cancelliere Comunale Gabriele Bianchi, il 20 maggio 1865, e sottoscritta, oltre che dal Sindaco Giacomo Gaetani, dagli Assessori Francescantonio Beneventani e Vincenzo De Luca.

[25] Era nato a Sasso il il 9 settembre 1779 dal notaio Francescantonio de Luca (figlio dello Speziale Domenico) e da Isabella Doti, sorella del notaio Tommaso Doti.

[26]Nel 1848 fu sospettato di aver partecipato ai moti carbonari di quell’anno: “equivoco fu il di lui comportamento nel ‘48”. Incluso fra gli “attendibili politici”, fu sottoposto a sorveglianza di polizia.

 

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